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La pelle esotica? Non esiste niente di più naturale ed ecologico


 

 

Durante l’edizione appena trascorsa di Lineapelle, Leather&Luxury ha incontrato Marco Sani, CEO del ex-gruppo XPP7, divenuto ora Minerva Hub, che comprende le concerie Zuma e Casadacqua di Santa Croce sull’Arno, realtà specializzate in pellami esotici. Con una lunga militanza nel settore conciario da tecnico della pelle, il sig. Sani ha affrontato con noi alcuni temi caldi di attualità circa la pelle esotica, la sua tracciabilità, il rispetto dell’animale e l’impatto ambientale delle lavorazioni. 

 

 

Sig. Sani, una domanda “facile”: quanto è sostenibile la pelle esotica?

 

«Domanda tutt’altro che facile! Innanzitutto la pelle, di per sé, è già una materia prima molto naturale ed ecologica. A ciò, aggiungiamo gli enormi sforzi che le industrie chimiche conciarie stanno facendo per rendere l’impatto ambientale delle lavorazioni molto più assorbibile rispetto al passato. Inoltre, esistono degli indici industriali internazionali a livello globale che analizzano chiaramente l’impatto ecologico dei cicli produttivi delle materie prime utilizzate in ogni settore. Qui la pelle esotica si classifica con un indice molto più basso rispetto ad ogni altra tipologia di materiale certificato “vegano”. Per non parlare del ciclo vita. In molti materiali alternativi, il fine vita è molto più impattante e devastante: nel mare ci finisce la plastica, non la pelle. La pelle, da parte sua, ha delle opzioni di recupero e di riciclo importanti». 

 

 

Una contestazione ricorrente fatta alla vostra industria è circa le modalità di reperimento dei pellami dei rettili. Cosa ci può dire al riguardo?

 

«Prima di tutto, la totalità delle pelli esotiche utilizzate per il mondo della moda, ha una ricaduta alimentare nei paesi di provenienza. In molte delle zone del mondo dove si produce la pelle esotica, la carne ricavata dai pellami dei rettili uccisi, è necessaria alla sopravvivenza della popolazione locale. Chiaramente un’attività di soppressione esiste, ma viene eseguita secondo criteri studiati, nel modo più etico possibile. 

Nello specifico, il commercio che prevede la soppressione dell’animale è una salvaguardia della natura stessa: in Louisiana negli anni ‘70 a causa della depaludazione dei terreni e al bracconaggio, erano rimasti in natura circa 90mila coccodrilli. Perciò vennero promosse delle leggi molto intelligenti per preservarli dall’estinzione, poi riprese anche da altri paesi. Si effettuò il prelievo delle uova di alligatori dal wild per farle sviluppare in allevamenti speciali e rilasciare successivamente in natura il 10% di ciò che veniva raccolto. Grazie a questo intervento, secondo i dati dell’ultimo censimento effettuato nel 2018, la popolazione di alligatori in libertà della Louisiana, si attesta attualmente sui due milioni e mezzo di esemplari. Quindi, la razza è stata salvata insieme alle biodiversità dell’ambiente, prevenendone lo sfruttamento delle risorse. In Indonesia, invece, si stima che ci siano tra le 150 e le 300mila persone che vivono della caccia alle lizard per il ciclo alimentare. Per quanto riguarda invece il pitone, non viene buttato via niente. La pelle viene utilizzata dal settore moda, la carne viene mangiata, mentre tutte le viscere e le ossa vengono essiccate e sfarinate per la medicina cinese». 

 

 

È più inquinante il processo di lavorazione della concia oppure, ipoteticamente, smaltire la pelle bruciandola?

 

«Sarebbe una tragedia ambientale se ciò accadesse. Se noi inquiniamo dappertutto, è difficile intervenire. I distretti conciari esistono per questo motivo, si possono consorziare ed affrontare il problema dello smaltimento nel modo migliore, concentrandone le criticità. È pur vero che qualche scandalo ogni tanto salta fuori, come raccontano anche le recenti cronache in Toscana, ma in questo caso una regolamentazione governativa efficace può aiutare a prevenire questi problemi. Ma gli investimenti per lo sviluppo tecnologico in questa direzione sono molto avanzati e, soprattutto in Italia, c’è un grandissimo sforzo delle aziende sulla chimica conciaria per minimizzare gli impatti ambientali delle lavorazioni. Questo tema è diventato un fattore importante per il nostro settore, le concerie agiscono anche in base alle richieste dei clienti. Il consumo di acqua ed energia elettrica nel processo di concia si è molto ridotto a parità di mq rispetto al passato, ciò non può essere affermato invece per lo sviluppo e la produzione dei materiali sintetici». 

 

 

Quale resta quindi la criticità principale del settore conciario?

 

«La conceria non è un “problema” risolto, ma il settore è in evoluzione. Le criticità sollecitate dal mercato sono presenti prevalentemente in ambito di approvvigionamento, tracciabilità e sostenibilità dove l’attenzione e la sensibilità a questi temi non è omogenea in tutti i paesi del mondo. Il settore conciario italiano resta però uno dei migliori da questo punto di vista. Cerchiamo di esportare i nostri codici etici all’estero, dove spesso c’è un gap culturale che rappresenta un ostacolo di sviluppo. Ma non ci fermiamo, sperando di poter ricominciare presto a viaggiare dopo questi due anni di stop a causa del Covid». 

 

 

Secondo lei, quanto pesa la scarsa informazione circa la lavorazione della pelle sulla percezione del settore conciario da parte dell’opinione pubblica?

 

«Pesa molto. Fa nettamente più notizia lo scandalo che la buona condotta. L’ambiente conciario non deve giustificarsi ma, per l’immagine di tutto il settore, per esempio, non giova affermare come spesso accade che siamo un comparto virtuoso al 100% perché, al momento, non si tratta della verità. Sarebbe necessario comunicare meglio che stiamo investendo, sia come aziende che come consorzi, per migliorare costantemente le nostre performance anche ambientali. In questo modo, forse eviteremmo la pubblicità negativa degli attivisti del PETA o dagli ambientalisti che vanno a protestare davanti ai negozi delle maison della moda vestiti con le tute di plastica e che ci chiamano “assassini”…Mi chiedo chi è che inquini di più tra di noi!».

 

 

Lineapelle si è svolta in concomitanza con la Milano Fashion Week: nelle collezioni moda P/E si è notato un ritorno prepotente del cuoio nell’abbigliamento e negli accessori. Vale lo stesso anche per la pelle esotica?

 

«Sì, assolutamente. Questo discorso non vale per tutte le pelli esotiche, ma molte di esse stanno avendo nuovamente un successo interessante. Visto il valore della materia prima, il numero di borse e accessori prodotti con pelli esotiche è notevolmente più basso rispetto a quello degli articoli in pelli di vitello e/o tessuto. Ma gli accessori in pelli pregiate sono quelli più qualificanti per i brand della moda. Ciò ha dei riscontri di mercato molto indicativi in questo periodo post Covid. Il momento è di buona crescita. In generale, quasi nessun marchio importante ha mai abbandonato l’uso della pelle esotica. Chi l’ha fatto, in passato, magari ha operato delle scelte non sempre coerenti. Spesso i motivi addotti per l’abbandono del pregiato sono attualmente per la maggior parte superati. Perciò il trend resta positivo».  

 

 

Tracciabilità delle pelli esotiche: esiste un sistema funzionante in Italia?

 

«Quando si parla di tracciabilità in ambito di rettili e affini, il terreno è molto delicato e variegato. Le regolamentazioni del commercio valide per alcuni pellami esotici, per esempio, non sono applicabili ad altre tipologie di rettili. Per quanto riguarda gli alligatori da allevamento, come appena detto, tutto è molto chiaro e codificato. Poi c’è il CITES (accordo internazionale tra Stati che ha lo scopo di proteggere piante ed animali a rischio di estinzione, regolando e monitorando il loro commercio -nda): un documento che ha un riconoscimento puntuale per ogni singola pelle importata. Per le lizard il discorso è simile: i regolamenti governativi di paesi come Indonesia e Malesia che si occupano del commercio delle pelli e che rappresentano quote precise della loro esportazione, sono abbastanza efficaci in tema di tracciabilità. Con altri pellami, questo meccanismo è più difficile da riscontrare. Ci sono però attualmente tanti studi effettuati dalle associazioni di settore che stanno intervenendo in questi ambiti. Il SARCA, per esempio, lavora per chiunque acquisti una pelle di rettile in Oriente e sta sviluppando dei progetti di coerenza di tracciabilità in questa direzione».

 

 

Alcune aziende stanno proponendo la concia biodegradabile per la pelle di vitello. Esiste già qualcosa di analogo per le pelli esotiche?

 

«Casadacqua ha già sviluppato un proprio progetto. Prima di tutto, quando si parla di  concia, si interviene su due fasi: il processo di produzione e il prodotto vero e proprio. Il prodotto metal free è già di per sé un grande passo avanti, sia normativo che di salute per il consumatore. L’altro aspetto è la produzione: noi ci siamo impegnati a fondo per sviluppare un metodo che fosse poco impattante a partire dall’ambiente di lavoro. Un salto qualitativo ecologico circa le acque reflue e l’ambiente stesso.  Con lo sviluppo di questo processo siamo già in fase avanzata, quasi all’industrializzazione. La direzione intrapresa è interessante ed è applicabile ad ogni tipo di pellame, non solo esotico. A fronte di un consumo di acqua e tempo maggiori rispetto alla concia tradizionale, il nostro metodo ci ha fatto ottenere un risultato sul prodotto, in ordine di grandezza, notevolmente più basso del metal free. Lo standard UNIC per il metal free dichiara che non devono essere presenti nel prodotto oltre mille parti per milione della somma dei metalli utilizzati per la concia. Noi abbiamo ottenuto un prodotto metal free con meno di cento parti su un milione. Quando mangiamo carne o verdura ne assumiamo molte di più. Il prossimo step è ottenere la certezza che le acque reflue ottenute abbiano un impatto ambientale modesto. Poi c’è la questione degli scarti solidi del pellame come per es. le prime rasature. Quelle, secondo noi, hanno le caratteristiche naturali per essere già smaltite direttamente nei campi. A questo proposito però, dobbiamo trovare un laboratorio biologico importante che sia in grado di certificare con sicurezza questo elemento e perciò continueremo ancora il nostro lavoro di ricerca». 







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